Abbiamo in Italia un patrimonio che si chiama filiera Tessile Abbigliamento e Moda: è uno dei settori più strategici della nostra economia, cuba 45.000 mila aziende, ci lavorano 400.000 persone e sviluppa un fatturato di 55 miliardi di euro (dati Confindustria Moda del 2019). È una filiera complessa, frammentata, basata ancora su realtà produttive medio piccole, spesso aggregate in distretti.
Come accade nel resto del mondo, sta affrontando grandi sfide di adattamento e trasformazione per rendersi più sostenibile e ristrutturarsi secondo un modello circolare.
Questa transizione, spinta anche dalla normativa comunitaria, è particolarmente necessaria se pensiamo che nel nostro paese non disponiamo di fibre naturali (quasi sempre le importiamo dall’estero) e generiamo un crescente volume di rifiuti tessili (si stimano 2 kg pro capite): quindi come produttori compriamo tante materie prime e come consumatori gettiamo tanto prodotto finito. Il sistema è sbilanciato.
Un sistema chiuso e orientato al recupero potrebbe portare grande valore, consentirebbe di reperire materie prime e smorzerebbe il problema dello smaltimento finale. Tanto più che i distretti italiani, di per sé concentrati geograficamente, sono un contesto ideale per sperimentare modelli di produzione circolari.
L’obiettivo finale è, ricordiamolo, produrre e immettere sul mercato prodotti sicuri (privi di sostanze pericolose per l’uomo e l’ambiente), con processi produttivi efficienti dal punto di vista del consumo di materie prime (acqua inclusa) e delle emissioni; prodotti capaci di durare a lungo e facilmente gestibili a fine vita, il che vuol dire riciclabili o smaltibili con un ragionevole dispendio di energia e denaro.
Nel tessile, in particolare, ci sono molte complessità.
Il riciclo è complicato perché i prodotti sono composti da molti materiali (fibre sintetiche quasi sempre miste, tessuti elasticizzati, fodere termosaldate, parti di finta pelle, cuciture sintetiche). Gli stessi tessuti vergini arrivano spesso da paesi in cui il costo di produzione è molto basso e sono di bassissima qualità, quindi difficilmente riutilizzabili. Anche la sicurezza è un tema delicato perché nelle diverse fasi di fabbricazione i prodotti sono sottoposti a trattamenti chimici (preparazione, tintura e finissaggio dei tessuti) che potenzialmente possono impattare sulla salute. E poi c’è una difficoltà di natura amministrativa perché in Italia i rifiuti tessili sono classificati come rifiuti speciali, non possono essere smaltiti con i rifiuti urbani e le aziende devono smaltirli in discarica controllata oppure, in un’ottica di circolarità, favorire il loro utilizzo in altre filiere produttive.
Il tema della sostenibilità è evidentemente un tema globale, ma, calato nel contesto della filiera moda italiana, diventa molto concreto e interessante. Certo, sono necessari sforzi congiunti, integrati e rivolti in modo sistemico a tutta la filiera, ma si possono trovare linee di azione molto precise.
Possiamo individuare 3 grandi aree in cui concentrare lo sforzo di innovazione e riorganizzazione:
- la pre-produzione: qui si tratta di scegliere attentamente le materie prime e progettare prodotti con lo sguardo rivolto a tutto il loro ciclo di vita (durevoli, facilmente riutilizzabili, disassemblabili e recuperabili)
- la produzione: qui lo sforzo è volto a introdurre nuovi modelli di consumo che legittimano e anzi promuovono la riparazione, il riutilizzo, la condivisione;
- la post-produzione: qui si deve fare ricerca, sviluppo e innovazione per introdurre sistemi efficienti di riciclo e trasformazione.
In ciascuna di queste la logistica può dare un contributo significativo.
Può farlo direttamente con le attività operative che le competono, ad esempio il controllo qualità, il ricondizionamento e la gestione ordini (che siano di noleggio o di rivendita); ma può farlo anche indirettamente favorendo la comunicazione tra attori della filiera (produttori, distributori, consumatori, fornitori di servizi) che, altrimenti, agirebbero in modo indipendente.